Storia di Rino Calofonte e della vecchia zoppa
Sprofondare nell’inutilità del tempo. Dovette pensarlo spesso Rino Calofonte, che aveva raggiunto i ventitré anni e sette mesi. Non riferirò le ragioni di questa mia convinzione, ma lascio immaginare. Rino si era iscritto a un corso per parrucchieri, poiché non aveva accettato l’idea di andare all’università e vivere nel caso, a caso, per caso.
L’Italia aveva cambiato teatro, Matteo Salvini era diventato il presidente, contro ogni sondaggio e previsione. La destra aveva vinto le elezioni, soprattutto per il crollo verticale del Partito democratico, infine frammentato dalla litigiosità dei nuovi renziani. Eugenio Scalfari, pentito dell’europeismo degli ultimi lustri, si era a lungo prodigato in un’insolita apologia dell’identità nazionale, consigliato, pare, da Cesare Geronzi, con cui pranzava ogni sabato, vigilia dell’editoriale monitorio.
Bruno Vespa si era ritirato nei pressi di Gerico, in una villa in faccia al Mar Morto. Monica Maggioni era passata a La7, e alla presidenza della Rai stava, ridente, Alessandro Sallusti.
Il mio amico Giuliano Compagno, almeno questo, era diventato ministro della Cultura, dopo tanto Bataille. Soltanto che era provato da una solitudine crescente.
Andrea Scanzi aveva scritto un romanzo di successo, che faceva il verso a “L’utilità dell’inutile”, di Nuccio Ordine, intanto divenuto rettore dell’Università della Calabria.
Arturo Bova di Amaroni aveva sorpassato se stesso e dunque si era insediato alla presidenza della Regione Calabria, con Mario Occhiuto come vice. Gabriele Carchidi si era trasferito in Germania, per dirigere un settimanale di grande respiro, “Ich habe die Nase voll davon”.
Così, rapidamente, si era evoluta l’Italia sino all’estremo Sud. Franco Battiato aveva licenziato l’album “Ne me quitte, passa”, scritto insieme a Riccardo Bertoncelli e Francesco Guccini.
Francesco Scarcelli era stato nominato consigliere particolare del sindaco di New York, Rosario Fanella, oriundo italiano del ’57. Luigi de Magistris aveva stretto un’amicizia inossidabile con Nicolás Maduro, che si era appassionato alla musica partenopea.
I giornalisti Pablo Petrasso, Pietro Bellantoni e Sergio Pelaia erano stati assunti da “The Times” e lì avevano incontrato il collega Matteo Trebeschi, che ci lavorava da otto mesi. Andrea Crobu aveva aperto una scuola alternativa in Finlandia, insieme ad Alice Pellegrini.
Salvatore Audia faceva la spola tra San Giovanni in Fiore e Sidney, dove con Ugo Floro e Antonella Grippo aveva fondato una televisione e una radio originali, di cui non vi dirò.
Biagio Simonetta era stato scelto come vicedirettore di “Il Sole 24 Ore”, Agazio Loiero era alla sua seconda conduzione del “Festival di Sanremo” e Gianni Vattimo aveva dato alle stampe “Il catechismo di José Mujica”.
Io mi ero oscurato in Messico. Senza Internet, cellulare, telefono fisso e televisione. Ogni tanto ricevevo le missive di un tizio che amava firmarsi con lo pseudonimo di “Pessoa”, il quale mi chiedeva di correggergli lettere d’amore per Teresa T***, esperta di sentieri dell’anima.
Domenico Monteleone aveva avviato uno studio legale a Nizza e il Movimento 5stelle aveva vinto in Sicilia.
Ma torniamo a Calofonte, figlio di agricoltori della Ciociaria. Il ragazzo non aveva studiato molto, ma non se ne faceva un cruccio. Come il Wittgenstein di una certa fase, riteneva di doversi dedicare a qualcosa di utile e manuale, perché l’intelletto non paga, al limite appaga. Allora, invece che buttare soldi – e ne aveva davvero pochi – a cazzeggiare all’università, si era determinato a imparare tagli, mode e tinte di capelli, che gli avrebbero dato riscontri e ritorno.
Un giorno, però, Rino entrò per sbaglio in una chiesa romana del Seicento, e lì fu attratto dall’immagine di una madonna che sembrava guardarlo con rara tenerezza. Ne uscì stordito, con un sentimento di fulminante infelicità. Nei giorni seguenti gli parve di ascoltare delle voci, come di antichi rematori spossati dalla fatica. Dapprima non se ne curò, poi li lesse come un segno chiaro.
S’incamminò per la lezione quotidiana del suo corso. Vide una vecchia signora che traversava la strada ricurva e zoppa, sbandata e spaesata. Le si avvicinò, chiese se le servisse aiuto e quella rispose, voltandosi di scatto: «Sei tu che devi aiutarti». Rino riuscì appena a inquadrarle il volto e ci vide riflesso il suo, nel futuro già alle porte. La donna svanì. Era la morte, capì il ragazzo, che non sempre bussa due volte.
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