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Riforma costituzionale: quell’analisi che non leggerete altrove

By Emiliano
21 Maggio 2017
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«Il fine giustifica i mezzi» sembra essere, riadattato, il motto del pragmatico Vincenzo De Luca, attivo (a modo suo) per il «sì». Per inciso, non credo che il Sud deciderà l’esito del referendum del 4 dicembre, che Renzi può perdere soprattutto per il dissenso da Roma in su.

di Emiliano Morrone

Articolo apparso su Corriere della Calabria, il 21 novembre 2016
Nell’era del «finanzcapitalismo» e della corrispondente «società liquida», le ultime affermazioni di De Luca (davanti a sindaci campani) potrebbero finanche servire alla sua parte, benché urtanti, a promuovere il «sì» con divertito compiacimento. E potrebbero avere perfino un valore paradigmatico.
Quel De Luca mostratosi tragicomico e qualunquista rappresenta, in breve, la comunità dei furbi e degli adepti cui mira il renzismo culturale, costruito in modo scientifico a partire dal «Trattato di Maastricht»: con la progressiva delegittimazione della politica; con l’esclusione dello Stato dal controllo della Banca d’Italia e quindi dalla tutela del risparmio e dalla vigilanza sul credito; con il (pure correlato) scadimento della formazione, intesa come Bildung; con l’aziendalizzazione e la regionalizzazione della sanità; con l’imposizione di un federalismo, di matrice spinelliana, che ha sgretolato lo Stato e prodotto le condizioni per le ruberie delle «Rimborsopoli» regionali, funzionali al disegno complessivo; con le norme che nei Comuni hanno marginalizzato le minoranze e con la finzione, infine, del rinnovamento che Renzi ha venduto sino ad oggi senza più presa, malgrado la propaganda col metodo Goebbels.
L’amico Ettore Jorio ha proposto sulle colonne del Corriere della Calabria di definire la consultazione del prossimo 4 dicembre come il «referendum delle consapevolezze». Ha dunque condotto, a sostegno del «sì», un ragionamento accademico cui intendo contrappormi in modo democratico, intanto obiettandogli di essersi fermato a un ambito soltanto nazionale.
Gli argomenti articolati da Jorio si fondano, in sostanza, sull’incapacità di legiferare e amministrare che finora si è registrata in Calabria. La conclusione è che, pertanto, ci serva come il pane l’iniziativa dello Stato, che con la riforma costituzionale punta a un accentramento forte, per esempio in materia sanitaria. Jorio sa benissimo, e meglio di me, che il salto logico dall’essere al dover essere è «fallacia naturalistica».
Ma il punto è un altro. La riforma costituzionale è frutto di un governo e di un parlamento illegittimi, “salvati” dalla creazione metafisica del principio di continuità degli organi dello Stato, divenuto più importante del fondamento della legalità. La riforma costituzionale in fieri, inoltre, è dettata (soltanto) dalla necessità di eliminare le tutele residue per le persone e i cittadini.
Non c’è una sola ragione per cui debba essere “snellito” il Senato, che diventerebbe camera d’interfaccia coi poteri europei e che sarebbe nominato dagli apparati partitici, cioè gli stessi che hanno concorso a distruggere la politica come luogo dell’ascolto e della mediazione. Il nuovo Senato avrebbe, peraltro, il compito di esprimersi, con tutte le distorsioni possibili, sul commissariamento delle Regioni già (forzatamente) previsto dall’articolo 120 della Costituzione.
Ancora, non c’è l’esigenza di velocizzare l’iter delle leggi, sia perché in Italia ve ne sono troppe, sia perché da Maastricht in avanti i parlamenti sono stati sostituiti dagli esecutivi, che hanno stravolto i requisiti per la decretazione d’urgenza e fatto approvare provvedimenti pesantissimi in tempi record; per esempio la riforma delle pensioni targata Fornero.
La verità è che la maggioranza di governo dovrà accelerare i tagli alla spesa pubblica, che derivano dal «Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria», col quale è stato inserito in Costituzione il pareggio di bilancio. Pertanto la riforma in parola è, in sintesi, uno strumento per cancellare o indebolire quegli appigli giuridici che ancora costituiscono un argine contro la dominante mercificazione dell’esistente; contro la riduzione dell’essere umano a numero, a servo, a mero contribuente; contro lo smantellamento dei servizi pubblici essenziali, che l’oligarchia finanziaria vuole privatizzare per intero, insieme a un’imprenditoria interessata che la fiancheggia con risorse e mezzi propri.
Quando Jorio scrive che «la consapevolezza del Sì risiede e matura sulla volontà di cambiare, in senso ovviamente favorevole, in termini di servizi pubblici vissuti e prestazioni essenziali esigibili», salta d’ufficio la causa della crisi, cioè il sistema monetario vigente, il quale si basa sull’emissione della moneta a debito. Tutt’attorno, come noto, vi è stata costruita una barriera pressoché invalicabile: dalla remota eliminazione della maggioranza pubblica per le quote della Banca d’Italia alla rivalutazione per decreto delle medesime, con il che si è concluso il governo di scopo retto da Enrico Letta; dalla ratifica volante del «Trattato di Lisbona» all’incostituzionale, limitante e distruttivo pareggio di bilancio.
Il «referendum delle consapevolezze» passerà alla storia, a prescindere dal risultato, come il referendum delle illusioni. Ciò perché il tema cruciale della sovranità popolare – e dunque monetaria – sarà come sempre oscurato, come vuole il potere. Io voterò «no». Intanto per la speranza che dal 5 dicembre possa avviarsi un progetto comune per bloccare la corrente deriva antidemocratica, favorita dalla settorializzazione del sapere e da ultimo dal tiroliano «Jobs Act», per cui l’individuo è prigioniero dell’istinto di sopravvivenza.

TagsCostituzioneEmiliano MorroneJean TiroleMatteo Renziriformasovranità monetaria
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