“Ravelstein”, la carità e il dono di sé: una riflessione sul senso della vita
Ravelstein è un romanzo del 2000 dello scrittore canadese Saul Bellow (in foto, nda), naturalizzato statunitense e deceduto nel 2005. È la storia di un accademico, Abe Ravelstein, che un amico racconta dopo la morte del protagonista, provocata dall’Aids. Lo lessi con rara foga, a Firenze.
di Emiliano Morrone
Nella città degli Uffizi mi occupavo di difesa civica e, con i Krypton, di teatro multimediale. Di là dalla trama, interpretai il libro come una preziosa esortazione alla vita, un invito a gustarla in profondità e una guida per i più giovani, sovente vinti dalla noia, dallo sbandamento, dalla paura di osare. Ravelstein era consapevole del valore delle proprie teorie di studioso, riconosciute a livello internazionale. Inoltre, malato sapeva di essere alla fine.
Bellow ne rimarcò la distanza progressiva dalle cose, benché il personaggio letterario amasse la bellezza e i dettagli, di cui si era circondato. All’epoca non conoscevo Gianni Vattimo, ma ero molto giovane, e come tale sognavo un futuro diverso, non soltanto per me.
In seguito incontrai il padre del «pensiero debole». Stretta una bella amicizia, Vattimo mi parlò dei suoi compagni Sergio e Gianpiero: il primo mancatogli in volo tra le braccia, mentre lo stava accompagnando all’eutanasia; il secondo sconfitto dall’Aids.
D’istinto collegai il messaggio del Ravelstein di Bellow alla vicenda umana patita da Gianni e confidatami con saggio distacco. In quel periodo mi interrogavo spesso sul destino di mia madre, che tra sofferenze indicibili aspettava il trapianto di cuore. Fu proprio lo sguardo verso la morte a rafforzarmi dentro, a liberarmi dalla prigione della quotidianità.
Mi capitò, per caso o per volontà superiore, di vedere il testo “Un altro giro di giostra”, di Tiziano Terzani. Stava in cima a uno scaffale della Feltrinelli nella galleria romana “Sordi”; un richiamo, un segnale, forse uno strumento per sondarmi meglio e lavorare con calma su me stesso, sul quel terrore che provavo in crescendo e che, per sbaglio, attribuivo all’impotenza personale rispetto alla situazione della mamma.
Lo presi e lo portai a casa. Me ne cibai, in silenzio meditando su ogni pagina, in cui l’autore aveva articolato la convivenza col cancro, la sua filosofia sull’esistere e, credo, una lezione straordinaria ai ragazzi come me.
Abitavo nella popolare Nomentana e almeno tre volte a settimana andavo a un mercato rionale. Lì potevo comprare frutta e verdura locali e, soprattutto, ascoltare e rivivere drammi, patemi degli altri. Fu una palestra di umanità preservata dall’incedere del tempo, che mi portò a riflettere sullo specifico, sul senso della vita.
Dopo qualche settimana arrivò per mia madre l’agognato trapianto e per mio padre una diagnosi infausta. Precipitai nello sconforto, mi sentivo perseguitato e un’altra volta inabile. Il dolore dei propri cari è forse peggiore di quello diretto. Ti scopri piccolo come un puntino e tutto si adagia nell’ombra.
In Lombardia, dove i miei si erano trasferiti per curarsi, legai con Renato Gigante e Antonella Conti, anche loro in attesa di trapianto cardiaco; la signora del secondo. Restai meravigliato dalla forza e dall’ironia con cui affrontavano le giornate, incerte come il clima di oggi. Mi insegnarono a donare, sul campo. Vattimo mi aveva invece dimostrato che, spogliato di riti e teologia, il cristianesimo è carità.
Da allora ho vissuto più per gli altri, senza interessi, lontano dallo scopo di riceverne un premio nell’aldilà. Ho vissuto per una causa, che per brevità chiamo «emancipazione collettiva». Ho provato con scritti, laboratori ed esempi concreti a trasmettere passione e amore per una vita ricca di senso. Specie alle ultime generazioni. Non ho mai chiesto consenso, voti, ritorno. Spesso non sono stato capito, ma ciò non mi ha cambiato, perché contano i fatti che lasci a memoria.
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