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Home›In Evidenza›La storia dell’orafo Salvatore Crivaro, calabrese di raro talento

La storia dell’orafo Salvatore Crivaro, calabrese di raro talento

By Emiliano
24 Dicembre 2017
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Un ragazzo “d’oro” rimasto nella sua terra, nonostante le logiche, i limiti e i condizionamenti della Calabria. Nonostante il dramma dei finanziamenti alle nuove imprese e una rapina che l’ha segnato per sempre.

Anelli di forma inedita ricordano monumenti, simboli remoti. Conducono la mente alle luci, al senso della tecnica e ai misteri di 2001: Odissea nello spazio, il celebre romanzo di Arthur Charles Clarke. Sono opere uniche, opposte alla serialità del mercato.

di Emiliano MORRONE

Concepite per giochi di movimento, colore, interpretazione, si scompongono per assumere nuovi corpi, funzioni, significati. Oro giallo e bianco, meccanismi leonardeschi, pietre incastonate con geometrie pitagoriche e soluzioni complesse nascoste dalla semplicità dell’insieme. Collane con medaglioni compositi che riproducono, assemblati, ideogrammi chiave dell’abate medievale Gioacchino da Fiore (1135 circa-1202), profeta della giustizia terrena e autore dell’affascinante Expositio in Apocalypsim. E quindi trame auree con perle e brillanti per diademi, orecchini e altri oggetti, secondo un’antica tradizione del Sud rivista in chiave personale.

Siamo in Calabria, a San Giovanni in Fiore (Cs), segnata dall’emigrazione, dalle tragedie minerarie all’estero e dall’isolamento geografico: 17mila abitanti a oltre mille metri di altitudine, nel Parco nazionale della Sila. Su viale della Repubblica, sopra la stazione della littorina, dismessa e abbandonata, c’è il laboratorio-negozio di Salvatore Crivaro: 33 anni, mani consunte e annerite dal lavoro, occhi vivi, entusiasmo contagioso. Qui, in una stanza di appena 40 metri, è racchiuso il mondo di un ragazzo della periferia dell’Impero occidentale: sogni, fatti, energie, speranze, utensili e il ricordo della violenta rapina del 12 settembre 2012 da parte di un gruppo di rumeni, che in sei minuti lo massacrarono, gli rubarono l’oro in cassaforte, gli ruppero i dotti lacrimali col calcio di una pistola e lo lasciarono in un bagno di sangue.

Nel 2004, contratto un prestito da 50mila euro per l’imprenditoria giovanile, lievitato a 80mila a causa dell’intollerabile «ingegneria finanziaria», aprì bottega nei pressi del Vallune, parte bassa dell’abitato che s’inerpica su monti di pini sterminati e silenzio greve. Attratto dal pianoforte già da bambino, Crivaro veniva dalla vecchia scuola d’arte locale, oggi liceo artistico, trascorso un anno all’analogo istituto Benvenuto Cellini di Valenza Po (Al), in cui studiò facendo il cameriere e poi il saldatore in un’azienda orafa che, racconta, «macinava oro, un paio di chili al giorno».

Figlio di operai, Crivaro conosceva bene il valore del denaro, della fatica e del progetto professionale; anche perché da ragazzino aveva collaborato con un artigiano di San Giovanni in Fiore, rapito dall’idea, dalla creazione del gioiello e dalla voglia di capire, di guidare il desiderio del cliente. All’età di 16 anni più contatti e scambi con referenti del prestigioso marchio Damiani, poi mollati per andare da sé. Al padre – considerato la «guida, l’esempio, il motivatore», protagonista di battaglie vinte per l’occupazione prima dell’euro – Crivaro aveva già giurato che sarebbe diventato un orafo, soddisfatta la curiosità per l’anatomia delle cavallette, utile in quanto, riferisce, «insetti e animali insegnano le regole, le meccaniche della natura, esatta quanto ignota». E lì, a Valenza Po, a ridosso delle colline del Monferrato, il suo diario di ricerche e conquiste, tra disegni in bus, viaggi della mente, intuizioni e i pomeriggi a fissare la fiamma, sul metallo, del fabbro creatore. Scuola e pratica lontano da casa, da quell’angolo di Sud da cui era partito l’undici settembre del 2001 perché incompreso, respinto da una didattica e da un contesto provinciale troppo stretti per un ribelle come lui, reo di voler conoscere, sperimentare, penetrare i segreti dell’oreficeria, in classe come altrove: dal «Pizzitänu», che in un buco di bazar vendeva bigiotteria da regalo, all’osservazione delle donne, «da servire – spiega – per missione». Poi la crisi dell’oro, le diffidenze commerciali, la paura occidentale, il timore del conflitto, di esplosioni più spaventose di quelle a Ground Zero, che William Langewiesche paragonò a Hiroshima, scrivendo: «L’area del World Trade Center era uno scenario terrificante di per sé, e nessuno poteva escludere l’eventualità di ulteriori crolli o di nuovi attacchi».

Dunque il ritorno di Crivaro nella sua terra, difficile ma obbligato, imposto da vicende più grandi di lui, di me, di noi. Giunto a San Giovanni in Fiore le rinunce per economia, il diploma da prendere, la passione della vita e la socialità complicata con gli amici, intenti a spendere, a scorrazzare con l’auto di papà e annoiarsi come usa oggi, a girare per bar e locali spesso senza un programma, un orizzonte, uno sguardo al futuro.

Nel contesto, immutabile e minuto, una svolta inattesa: a Cosenza per una borsa di studio presso un produttore di lussuosi monili, venduti anche a 20mila euro, realizzati senza neppure il rimborso dei biglietti del pullman, tra i commenti ironici di coetanei e comitiva di Crivaro. Poi la prospettiva di creare in proprio, con la garanzia di commesse che dovevano arrivare da un avvocato, pronto a investire per procurare la materia prima. Ma niente, l’operazione si rivelò presto infruttuosa, al che Crivaro si rimboccò le maniche e si fidò soltanto del talento, dell’abilità, dell’inventiva e tenacia in suo possesso.

Un giorno il principe di Giordania Faik Bisharat entrò nella bottega dell’enfant prodige di San Giovanni in Fiore con l’Associazione internazionale dei Timonieri d’Oro per il Turismo, in Italia a lungo guidata dal compianto Franco Bonacci. Caterina Bonacci, la moglie, ricorda oggi quella visita casuale, forse non troppo: «Crivaro si mostrò subito gentile e molto generoso, affascinato dalla nostra presenza. Avevo vestito e orecchini abbinati, mi chiamò “la signora in turchese”. Ci accolse con rara gentilezza e disponibilità, mostrandoci paziente i suoi lavori». E la notte il giovane orafo restò sveglio a realizzare un gioiello di perle, oro e legno: una nave con timone per omaggiare il principe di Giordania che lo volle a una serata di gala, in Calabria. Poi, nel 2006, l’incontro con l’allora governatore del West Virginia, Joe Manchin, arrivato in delegazione nella terra degli avi, San Giovanni in Fiore. Emozione e stupore reciproci, Crivaro fu invitato dal politico, che raggiunse negli Stati Uniti facendosi apprezzare per le doti creative e umane insieme. Vere, subito evidenti.

E poi mostre, sacrifici, ore, giorni, mesi a creare nuove opere, con umiltà e ardore più unici che rari, così da rimettersi in gioco, in sesto, dopo la rapina subita a pochi mesi dal matrimonio, per cui aveva risparmiato soldi guadagnati col sudore della fronte, che dovette investire nell’attività, obbligandosi a stringere la cinghia, a ricominciare.

Gli autori di quella rapina sono finiti male e Crivaro si è ripreso, malgrado i danni permanenti ai dotti lacrimali e le conseguenze per la sua professione, per il futuro. Tra le ipotesi di quel gesto criminale anche un movente disumano: bloccare per sempre la crescita del giovane artigiano, che invece ha resistito, traendone motivi per moltiplicare gli sforzi e il desiderio di dire, di fare qualcosa di memorabile dalla, nella sua San Giovanni in Fiore.

Ho voluto raccontare questa storia perché reca due messaggi. Primo: il talento viene più spesso dalle difficoltà, e a Sud lo sappiamo bene. Secondo: nulla, volendo, può sconfiggere l’amore per un mestiere e la voglia di riuscire. Neppure la cattiveria umana, sempre dietro l’angolo. Buon Natale.

TagsarteFaik BisharatFranco BonacciJoe ManchinorafoSalvatore CrivaroSan Giovanni in Fiorestoria
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